Da più di un anno, ormai, viviamo in una dimensione surreale nella quale ci
sentiamo comparse di un film catastrofico e protagonisti di una vita che in fondo
non ci appartiene. La pandemia, le misure adottate per evitare il contagio, il
lockdown hanno stravolto le nostre abitudini e pietrificato la società. Siamo ancora
in attesa che la vita reale, quella che abbiamo vissuto finora, riparta, dopo mesi di
immobilità. Neanche le persone anziane, le vittime principali di questo disastro
sanitario, quelle che hanno vissuto la guerra, raccontano di ricordare un periodo più
triste e inverosimile di questo. La reclusione imposta dall’emergenza sanitaria e
prescritta dal governo ha determinato seri disturbi psichici in molte persone, di tutte
le età, come se non bastassero i matti che già sono in giro. Non a caso, ultimamente,
è aumentato il consumo degli ansiolitici, oggetto di numerosi spot pubblicitari. Il
Consiglio Nazionale dell’Ordine degli psicologi, a seguito di un’indagine
commissionata all’Istituto Piepoli, ha sentenziato che il 63% degli italiani soffre di
stress da pandemia. Basta guardarsi intorno per osservare come le persone siano
profondamente cambiate, si mostrino diffidenti verso gli altri e manifestino reazioni
esagerate per delle sciocchezze. L’incertezza per il futuro, le nuove condizioni
generali di vita, la paura della malattia e dell’inadeguatezza delle cure, la lontananza
dagli affetti, la difficoltà ad immaginare la definitiva uscita dal tunnel di certo non
contribuiscono al mantenimento della salute mentale. Non è d’aiuto, tra l’altro, la
propaganda terroristica ed il linguaggio bellico utilizzati per mettere l’accento sulla
gravità della situazione. Di certo la visione “militaristica” della gestione
dell’emergenza e la relativa propaganda non contribuiscono a rasserenare gli animi.
Dai nostri apparecchi televisivi tuonano giornalmente frasi ricorrenti pronunciate da
soggetti che ostentano la divisa o virologi iettatori come: “Siamo in guerra”,
“Daremo Fuoco alle polveri”, “Combattiamo un nemico invisibile”. La metafora
bellica non è una novità: i morti negli ospedali sono stati paragonati a vittime di
guerra e il personale medico e sanitario viene raccontato con la stessa retorica con
cui si raccontano gli eroi di guerra. Ma la metafora bellica è distruttiva e produce
sempre più paura a scapito della serenità di cui tutti abbiamo bisogno. Sarebbe
auspicabile che le istituzioni si impegnassero di più nell’acquisizione e
somministrazione dei vaccini e, prima ancora, nella cura immediata delle persone
che già si sono infettate, investendo sugli anticorpi monoclonali e sulle cure
domiciliari immediate e pertinenti. Vorremmo che le linee guida e i protocolli
sanitari utilizzati finora non ci inducessero, in caso di infezione, ad aspettare in
“vigile attesa” di morire dentro casa. Vogliamo essere rassicurati, sentirci dare
risposte certe e adeguate, vogliamo tornare alla normalità e soprattutto non
vogliamo più sentire parlare della pericolosità dei rapporti umani, del
distanziamento e della necessità di stare a casa. Abbiamo bisogno di sapere che
torneremo presto alla vita come era prima della pandemia perché abbiamo a
disposizione i vaccini e le cure adeguate per tutti. Vogliamo tornare ad abbracciarci,
ad uscire con gli amici, a discutere liberamente senza mascherina e senza guardare in cagnesco il nostro interlocutore potenzialmente infettivo. Vogliamo dimenticare il
virus cinese che ci ha tenuto agli arresti domiciliari per mesi e riacquistare le
meritata libertà prima di trasformarci definitivamente in individui asociali, diffidenti
e squilibrati.
Riccardo Tomassoli 3°I
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