Web e social media dietro l’attacco a Capitol Hill
Il 6 gennaio a Washington una folla di persone pro-Trump irrompe dentro Capitol Hill, il Campidoglio americano. È stato definito come un attacco alla democrazia che, politicamente parlando, si può considerare nata in America. Questa irruzione, considerata un attacco di stato allo Stato, ha portato l’America ad un punto critico, mai raggiunto prima: l’invocazione del venticinquesimo emendamento se il presidente Trump non avesse “adempito ai suoi poteri e doveri”. Ad oggi sono stati arrestati molti dei filo trumpiani che sono penetrati all’interno della sede governativa statunitense e tra loro spicca la figura di Jake Angeli o come si faceva chiamare lui, lo sciamano di QAnon. Un fatto particolare di una certa importanza per la nostra società è che le vicende hanno il web e i social media come comune denominatore e, dunque diventano protagonisti. QAnon per esempio, è una teoria complottista di estrema destra con nessun fondamento, sempre smentita. Perché allora è diventata virale in così poco tempo? Il web nasce con l’obiettivo di connetterci uno con l’altro ma purtroppo l’unica legge che detta tutto questo è stata ideata dai “big tech” (grandi aziende, colossi come Facebook o Twitter) il cui scopo è far si che le persone stiano più tempo possibile sopra quella piattaforma. È un insieme di algoritmi, gli stessi che modificano il nostro feed in base alle nostre preferenze o, per dirla meglio, cercano di dedurre la nostra personalità in base al comportamento che adottiamo online. Da qui deriva il “filter bubble”, quella bolla che ci creiamo online in cui entrano solo persone e contenuti che ci danno ragione, senza riscontri negativi. Dal vivo, ci si può basare molto sulla fiducia che porgiamo di fronte ad una persona o una determinata circostanza. È un modo diverso per comunicare e di fronte a ciò è compito nostro tenere conto del contenuto, la motivazione della pubblicazione e la fonte da cui proviene. Sul web, la sola distinzione viene fatta se ciò che mi appare sullo schermo è vero o falso. Esistono tre tipi di cattiva informazione: misinformazione (non intenzionale), mal informazione (materiale altrui pubblicato), disinformazione (notizie false, volte a nuocere). Il verbo che si utilizza quando si sta online è “navigare” ed è proprio così che ci si sente, un pesce in mezzo ad un oceano di informazioni. Gli algoritmi si basano solo sulla rilevanza, un esempio è YouTube che si basa sull’impatto emotivo dei video raccomandati (quante volte è capitato di non rendersi conto di quanto tempo fosse passato e nel frattempo finire a vedere i video più assurdi, su cose inutili!) e se è l’internet a decidere cosa vedere o no, almeno dovrebbero integrare più cose. Il web ha il potere di promuovere e amplificare le notizie (es. fake news), allora è giusto che si prenda anche la responsabilità delle conseguenze possibili. L’algoritmo in inglese si chiama “greedy” (avido) ed è proprio così che è stato progettato, l’utente se perde o non ha modo di instaurare fiducia in cosa è vero e cosa è falso, inizia a credere a ciò che lo circonda. Questo è quello che è accaduto sul web e si è riversato sulla realtà il fenomeno del filter bubble. La massa di gente che ha assaltato Capitol Hill, ha la convinzione di essere dalla parte della ragione: d’altronde, questo è il riscontro che loro trovano su internet. È difficile dire di aver sbagliato se è tutto una caricatura. Bisognerebbe lasciare spazio alla comunità di decidere ciò che è meglio perché la realtà non è virtuale e non c’è un tasto “ho fatto uno sbaglio”.
Camilla Borghi
Sara Rangoni
Francesca Romagnoli
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