L’inetto è un uomo incapace di vivere la vita reale e si ritrova costretto, il più delle volte, a fare appello alla propria vita interiore. È un vinto dalla vita, un uomo incapace di intervenire nel mondo.
Cosa ne pensa Svevo dell’inetto e dell’inettitudine? Iniziamo con il dire che i suoi protagonisti sono tutti inetti da Alfonso Nitti in “Una vita", a Emilio Brentani in “Senilità” e l’inetto per eccellenza Zeno Cosini in “La coscienza di Zeno”. Soffermiamoci sulla figura di Zeno: l’emblema dell’uomo moderno.
Il romanzo in questione è “un'autobiografia aperta”, se così si può definire, in cui il protagonista Zeno Cosini racconta la sua vita per episodi sparsi, senza un vero ordine cronologico, come se in ogni capitolo aprisse una riflessione su un diverso momento della sua vita, fino alla brusca interruzione finale. La parte finale, molto insolita è anche molto attuale nonostante i 100 anni dalla pubblicazione del romanzo (1923). Zeno si definisce “guarito” dalla sua inettitudine quando si rende conto che, secondo la sua visione, tutti gli esseri umani sono malati. La malattia è comune a tutti gli uomini e “l’uomo stesso ha inquinato la vita” afferma l’autore. Arriverà dunque alla conclusione che solo una catastrofe potrà effettivamente “guarire” l’uomo. Nelle ultime pagine del romanzo il protagonista profetizza un'apocalisse, un'enorme esplosione che distruggerà il mondo, anticipando il concetto di bomba atomica che poi si realizzerà nel bombardamento di Hiroshima e Nagasaki. Questa estrema metafora apocalittica permette di comprendere l’insoddisfazione personale dell’inetto riguardo la società e la sfiducia che egli ha verso il progresso e il mondo in cui vive ovvero un mondo minacciato dalla guerra.
Svevo attraverso i pensieri di Zeno si focalizza sulla condizione umana, in una forma che sembra avvicinarsi al “flusso di coscienza” o “stream of consciousness”, una tecnica narrativa utilizzata dall’irlandese James Joyce, con cui Italo Svevo aveva dei rapporti di amicizia e stima reciproca. I due scrittori ebbero modo di conoscersi, perché Joyce insegnava a Svevo la lingua inglese e quelle lezioni si trasformarono ben presto in discussioni letterarie.
In una delle edizioni del romanzo è stata presa come immagine per la copertina l'opera “Decalcomania” di René Magritte (1966). Il quadro è stato scelto in quanto è un esempio di pittura che rende visibile il pensiero.
Ci invoglia a riflettere e ad attuare una ricerca interiore sulla nostra identità.
L’inettitudine è dunque una debolezza interiore. Gli inetti non sanno stare al mondo e non sanno vivere. Lo stesso Svevo li definisce come vinti dalla vita che non posseggono qualità e incapaci di intervenire nel mondo.
L’inettitudine di cui parla Svevo è più comune di quanto si crede basti pensare a tutte le volte in cui ci siamo sentiti inferiori, sbagliati, fuori luogo o quando non siamo riusciti a portare a termine un compito perché non credevamo di avere le capacità per farlo. Tutto questo vuol dire essere inetti!
Nel caso della coscienza di Zeno, vediamo come il protagonista pensa che causa della sua malattia sia il vizio del fumo. Zeno fin dal principio non trova alcun piacere nell’atto di fumare anzi prova quasi fastidio e un certo malore nel farlo, tuttavia sviluppa il vizio.
Ciò che non viene detto è come il protagonista della vicenda effettivamente non voglia smettere di fumare e tantomeno liberarsi del vizio, perché quest’ultimo è di fatto la sua inettitudine. Cerca di dare una forma più concreta al suo sentimento di inadeguatezza e lo riversa nel fumo per cercare di giustificarlo.
Nella riflessione conclusiva, Zeno si considera completamente guarito, perché ha scoperto che la "vita attuale è inquinata alle radici" e, rendersene conto, è segno di salute, non di malattia. In un certo senso si può dire che in questo caso riconoscere la propria condizione e accettarla, sia il modo per guarire. L’errore umano sta nel volersi liberare di questo sentimento di inadeguatezza che Zeno definirà con il termine “malattia”. A sostegno di questa tesi troviamo una lettera scritta da Svevo a Valerio Jahier risalente al 1927:
“E perché voler curare la nostra malattia? Davvero dobbiamo togliere all’umanità quello ch’essa ha di meglio?”.
L’umanità è malata, ma di un male che è anche la sua ricchezza.
Quest’ultima riflessione è più evidente se ne mostriamo un esempio pratico. Se pensiamo a Van Gogh, le prime parole che ci vengono in mente sono “Arte, Genio e Follia”. È senza alcun dubbio il pittore più tormentato e incompreso della storia eppure anche uno dei più grandi. Per Van Gogh il colore ebbe un valore di metafora: in esso rappresentava il contrasto inconciliabile fra la vita reale e la sua vita interiore. Nelle sue opere Vincent prova ad esprimere una sua costante ricerca di sé, l’inadeguatezza al mondo di un uomo che, sin dalla nascita, si è confrontato con la perdita dell’identità. Venne ricoverato nell'ospedale psichiatrico di Saint-Rémy-de-Provence del quale fece il suo atelier. La sua intera pittura è caratterizzata dalla sua malattia senza di essa non ci sarebbe stata la sua arte e tantomeno la sua genialità.
Van Gogh dipinge perché è convinto che sarà la pittura a salvarlo dalla follia e forse in parte cosi è stato.
-Giovanna Finaldi VF
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