L’effetto Lucifero è ormai una tematica classica della psicologia sociale, introdotta da Philip Zimbardo nel 1971 con il famoso esperimento carcerario di Stanford.
Questo evento sociale è la dimostrazione di come, persone considerate normali ed essenzialmente buone, possano trasformarsi in mostri capaci di atti disumani: la loro malvagità non deriva solo dal singolo individuo, ma è determinata anche dalla specifica situazione in cui ci si trova.
Nei decenni successivi all’esperimento, vari studiosi hanno proposto delle spiegazioni e individuato le condizioni e le situazioni che scatenano l’effetto Lucifero.
Zimbardo riprese da Gustave Le Bon, studioso francese del comportamento sociale, alcune idee per il suo esperimento. In particolare, la teoria della deindividuazione la quale sostiene che gli individui di un gruppo coeso, quindi determinati da un forte senso d’appartenenza, tendono a perdere l'identità personale, la consapevolezza, il senso di responsabilità, alimentando la comparsa di impulsi antisociali.
Per l'esperimento vennero scelti, tra gli studenti universitari che risposero ad un annuncio pubblicato su un quotidiano, 24 maschi di ceto medio fra i più equilibrati, maturi e meno attratti da comportamenti devianti. I volontari vennero divisi casualmente in due gruppi: i detenuti e le guardie. I detenuti erano obbligati ad attenersi a rigide regole e ad indossare ampie divise con un numero impresso sopra, un berretto di plastica e una catena alla caviglia. Alle guardie furono fornite divise color kaki, occhiali da sole riflettenti (per evitare il contatto visivo diretto con i prigionieri), corredate di manganello, fischietto e manette. Inoltre, avevano molta libertà sulla scelta dei metodi adottati per mantenere l’ordine.
Nonostante la scelta accurata dei partecipanti, Zimbardo fu costretto ad interrompere l’esperimento dopo solo sei giorni per i comportamenti violenti, sadici e vessatori nei confronti dei prigionieri che, umiliati, dimostrarono sintomi di apatia e di disgregazione individuale e collettiva.
L’esperimento carcerario di Stanford dimostra che la vera natura del bene e del male non è un tratto di personalità, non è qualcosa dentro di noi, ma un attributo della natura umana stessa e che ognuno di noi ha la capacità di fare sia del bene che del male all’altro.
Il ruolo recitato dalle guardie è diventato la loro stessa identità: normali studenti universitari, reclutati nell’ambito di un esperimento, divennero in pochissimo tempo guardie o prigionieri in grado di compiere azioni che sarebbero state inimmaginabili per loro stessi prima di partecipare alla simulazione carceraria.
Per le guardie divenne normale essere crudeli ed ogni giorno il livello degli abusi e delle umiliazioni divenne sempre più frequente. Mentre i carcerati, giorno dopo giorno, divennero sempre meno presenti alla realtà, cadendo in uno stato di indifferenza verso ciò che accadeva
Il bene ed il male fanno e faranno sempre parte della condizione umana ed ogni singolo individuo è in grado di compiere ambedue le azioni così da comprendere che la linea tra bene e male, in specifiche situazioni e contesti, non è poi così netta e scissa.L’effetto Lucifero è ormai una tematica classica della psicologia sociale, introdotta da Philip Zimbardo nel 1971 con il famoso esperimento carcerario di Stanford.
Questo evento sociale è la dimostrazione di come, persone considerate normali ed essenzialmente buone, possano trasformarsi in mostri capaci di atti disumani: la loro malvagità non deriva solo dal singolo individuo, ma è determinata anche dalla specifica situazione in cui ci si trova.
Nei decenni successivi all’esperimento, vari studiosi hanno proposto delle spiegazioni e individuato le condizioni e le situazioni che scatenano l’effetto Lucifero.
Zimbardo riprese da Gustave Le Bon, studioso francese del comportamento sociale, alcune idee per il suo esperimento. In particolare, la teoria della deindividuazione la quale sostiene che gli individui di un gruppo coeso, quindi determinati da un forte senso d’appartenenza, tendono a perdere l'identità personale, la consapevolezza, il senso di responsabilità, alimentando la comparsa di impulsi antisociali.
Per l'esperimento vennero scelti, tragli studenti universitari che risposero ad un annuncio pubblicato su un quotidiano, 24 maschi di ceto medio fra i più equilibrati, maturi e meno attratti da comportamenti devianti. I volontari vennero divisi casualmente in due gruppi: i detenuti e le guardie. I detenuti erano obbligati ad attenersi a rigide regole e ad indossare ampie divise con un numero impresso sopra, un berretto di plastica e una catena alla caviglia. Alle guardie furono fornite divise color kaki, occhiali da sole riflettenti (per evitare il contatto visivo diretto con i prigionieri), manganello, fischietto e manette. Inoltre, avevano molta libertà sulla scelta dei metodi adottati per mantenere l’ordine.
Nonostante la scelta accurata dei partecipanti, Zimbardo fu costretto ad interrompere l’esperimento dopo solo sei giorni per i comportamenti violenti, sadici e vessatori nei confronti dei prigionieri che, umiliati, dimostrarono sintomi di apatia e di disgregazione individuale e collettiva.
L’esperimento carcerario di Stanford dimostra che la vera natura del bene e del male non è un tratto di personalità, non è qualcosa dentro di noi, ma un attributo della natura umana stessa e che ognuno di noi ha la capacità di fare sia del bene che del male all’altro.
Il ruolo recitato dalle guardie è diventato la loro stessa identità: normali studenti universitari, reclutati nell’ambito di un esperimento, divennero in pochissimo tempo guardie o prigionieri in grado di compiere azioni che sarebbero state inimmaginabili per loro stessi prima di partecipare alla simulazione carceraria.
Per le guardie divenne normale essere crudeli ed ogni giorno il livello degli abusi e delle umiliazioni divenne sempre più frequente. Mentre i carcerati, giorno dopo giorno, divennero sempre meno presenti alla realtà, cadendo in uno stato di indifferenza verso ciò che accadeva
Il bene ed il male fanno e faranno sempre parte della condizione umana ed ogni singolo individuo è in grado di compiere ambedue le azioni così da comprendere che la linea tra bene e male, in specifiche situazioni e contesti, non è poi così netta e scissa.
Vittoria Palamara, 2B
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