Giudizio unanime per gli amanti del calcio di ieri e oggi
Diego Armando Maradona. L’uomo, il ragazzo, il bambino destinato a diventare il più forte di tutti. Destinato. Sì, perché quando aveva solo 8 anni, il suo amico Carrizo, chiamato dall’Argentinos Juniors per un provino, porta Diego con sé e lo presenta come il migliore del villaggio. Siamo nell’anno 1968, da lì tutto ha inizio: quel bambino stupisce tutti con le sue giocate e Don Francisco Cornejo, bancario di giorno e allenatore nelle giovanili di sera, certo che quel ragazzino fosse del ‘54 o ‘55, chiede addirittura i documenti alla sua famiglia. Non è che Diego stesse mentendo, era nato nel 1960, ma le sue qualità erano fuori dal normale.
A 16 anni, quando debutta in prima squadra, si è preso già tutta la famiglia sulle spalle e sarà lui, poco dopo, a comprare una nuova casa in una zona migliore della città. Non è mai voluto pesare sui genitori e, fin da quando il suo stipendio era basso, si comprava da solo quello di cui aveva bisogno per allenarsi e giocare, senza chiedere né soldi né aiuto a mamma Doña Dalma e papà Don Diego. Tutta la famiglia tifava e, tutt’ora, tifa gli Xeneizes del Boca Juniors, così quando arriva la loro chiamata, Dieguito non può che accettare. Ringraziò e sarà sempre grato alla società che lo ha cresciuto, soprattutto a Don Francis: colui che ha creduto in lui per primo e lo ha allenato (forse consigliato, perché uno con quel sinistro non può essere allenato!) per più di dieci anni. Un solo campionato con il Boca e, dopo il suo primo mondiale con l’Argentina nell’82, passò al Barcellona dove, anche a causa di alcuni infortuni, non riuscì a rendersi protagonista e a dimostrare tutto il suo talento.
Lasciò Barcellona direzione Napoli per riscattarsi e far riscattare una città “povera” (povera come come Villa Fiorito, il villaggio dove aveva dato i primi calci al pallone) e una squadra che galleggiava nella parte bassa della classifica. Al San Paolo venne accolto come un eroe, un salvatore, un Dio a cui tutti i napoletani si affidarono per arrivare in alto e sconfiggere le differenze che c’erano in Italia, non solo nel calcio, tra sud e nord. La squadra non era un granché, ma Maradona, seppur con un inizio difficile (il calcio itali
ano era più fisico, le difese erano più dure di quelle spagnole), prese la squadra sulle spalle e alla fine della sua permanenza aveva conquistato due scudetti (gli unici vinti dal Napoli nella sua storia), una Coppa Italia, una Coppa Uefa (l’Europa League dei giorni nostri) e una Supercoppa italiana. Diego era innamorato della città, ”mi basta vedere Napoli per dimenticare Buenos Aires” disse, e Napoli era pazza di lui: molti dissero che avesse addirittura superato la figura di San Gennaro (santo patrono locale). Non c’è da stupirsi, quindi, se molti bambini, nati negli anni ‘80 e ‘90 nella città partenopea, sono stati chiamati Armando o Diego, o addirittura Maradona. L’argentino, bambino, non lo è stato per molto; forse non abbastanza visto che a otto anni aveva già smesso di giocare nel suo villaggi
o, e durante la sua carriera si è sempre mostrato come un uomo che voleva tornare a quando era piccolo. Con questo mi riferisco a Diego, il Diego fuori dal campo, quello che non amava troppo la massa e che avrebbe voluto andare in giro per Napoli con la sua Claudia, senza essere circondato da tifosi e giornalisti. Non intendo dire che non adorasse il pubblico e i napoletani, anzi, lui ne era innamorato, ma è facile pensare che una situazione del genere, soprattutto in un ambiente caldo come quello della Napoli calcistica, possa essere soffocante per un qualunque individuo (la fama non è sempre qualcosa di bello e piacevole).
Maradona era diverso invece: in mezzo al campo faceva tutto quello che voleva ed era lì, sui prati verdi che tanto amava, che esprimeva se stesso; e tutti, amanti di calcio e non, dovrebbero ricordarlo e apprezzarlo per quello e non per le vicende di cui era protagonista fuori dal campo.
La dipendenza dalla cocaina, le avventure con donne all’insaputa della moglie e i rapporti con la famiglia dei Giuliano erano qualcosa più grande di lui. Forse c’era davvero una forma d’affetto e si sentiva da loro protetto o forse il loro legame era basato solo sul fatto che loro gli fornivano le sostanze. Diego comunque non è stato mai così forte da riuscire ad allontanarsi dal clan camorrista, anzi, furono loro a spezzare i rapporti quando lui fu accusato di doping per uso di efedrina. Al suo addio da Napoli fu pianto da pochi, non c’erano gli ottantamila che lo accolsero al San Paolo sette anni prima. I napoletani erano arrabbiati, offesi da un uomo che tanto aveva dato con i suoi piedi e le sue giocate, quanto messo in cattiva luce, quasi disonorato una città, un popolo, una squadra. Diciamo che è stato perdonato e, oggi, Maradona è un Dio a Napoli (non è solo calcio), al punto che il comune ha deciso di intitolargli lo stadio che, d’ora in poi, sarà il ‘Diego Armando Maradona’ e non più il ‘San Paolo’.
Io sono nato quando il campione argentino già non giocava più, ma non direi che non l’ho vissuto perché probabilmente è eterno: nel calcio di oggi c’è un continuo richiamo alle sue gesta con il Napoli, con la nazionale, e il paragone tra lui e Messi non finirà mai anche se non penso siano così simili come sembra: entrambi argentini sì, entrambi numeri 10, o Diez, e capaci di grandi giocate nel ruolo che ricoprono, ma c’è una bella differenza tra il brillare nel Barcellona e l’imporsi in Serie A con un Napoli che non aveva il blasone odierno.
Inoltre, Diego aveva un carattere più forte, non aveva bisogno di una squadra dietro: ha vinto un mondiale da solo e sempre fatto la differenza anche con la propria nazionale; mentre Lionel, al contrario, con l’Argentina sembra un giocatore totalmente diverso da quello che vediamo in Liga. Possiamo riassumere la carriera di questo giocatore in una partita. Messico 1986. Quarti di finale della Coppa del Mondo. Argentina contro Inghilterra. La furbizia, un po’ disonesta, nel primo gol segnato con la mano e l’immensa classe con cui salta sei difensori nel secondo, considerato da molti il più bello della storia. Diego ha giustificato quel gol come una punizione nei confronti degli inglesi che avevano ucciso centinaia di giovani argentini nella guerra delle Falkland quattro anni prima. Questo e alcune amicizie fuori dal mondo calcistico, come quella con Fidel Castro, uno dei protagonisti della rivoluzione cubana, sottolineano come è sempre stato attivo politicamente e con idee di sinistra: già da ragazzino vestiva di “rosso” negli Argentinos Juniors (squadra nata da un circolo socialista). Forse mi sarebbe piaciuto avere l’età che ho adesso alla fine degli anni ‘80 per vivere più da vicino un calcio diverso da questo, forse più bello, che oltre al Diez era ricco di molti altri campioni che ho conosciuto solo come allenatori, dirigenti, mentre altri sono addirittura spariti nella loro vita privata. Purtroppo, molti miei coetanei, non avendo vissuto in quegli anni e non conoscendo la sua storia nel particolare, liquidano la morte di Maradona come conseguenza di quello di cui si era “fatto”.
Non sanno tutto quello che ha passato o che ha dovuto affrontare, neanche io lo so, nessuno lo sa e forse, neanche lui stesso lo sapeva. Di certo siamo esentati dal darne un sommario giudizio morale, proprio perché, con l’alibi dell’incoscienza e del sogno dei nostri vent’anni, possiamo affermare che Diego Armando Maradona è stato quel grande che ha cambiato il mondo del calcio.
コメント