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Francesca Cristofori

Gli uomini preferirono davvero le tenebre alla luce?


Ho visto un cancello con in cima una scritta “Il lavoro rende liberi” e dentro c’era l’orrore. Lo stesso orrore, ancora oggi, dietro altre sbarre…

Ho visto una piazza dove i carri armati hanno calpestato gli studenti, ho visto i corpi dei dissidenti torturati sul bordo della strada.

Ho visto barche piene di donne e bambini capovolgersi nel mare e i morti sulla riva.

Ho visto le fosse comuni, i miseri resti di chi per sopravvivere doveva stare zitto e non ce l’ha fatta.

Ho visto negare alle ragazze il diritto allo studio, quello alla gioia, la libertà.

Ho visto bambini lavorare come schiavi cucendo le scarpe per i ricchi.

Ho visto gente che cantava dai balconi. Dicevano che sarebbe andato tutto bene, che il mondo non sarebbe stato più come prima e invece, tutto è rimasto uguale.

Ho visto scoppiare una guerra e poi un’altra guerra, cadere le bombe sulle case, sugli ospedali, sulle scuole.


La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, approvata dalle Nazioni Unite nel 1948, è rimasta in molti casi un’utopia: ancora oggi i diritti espressi in quel documento restano del tutto preclusi a larghe fasce di popolazione. I fatti di cronaca testimoniano la continua ed efferata violazione anche delle più elementari regole della convivenza civile: in molte parti del mondo gli uomini possono ancora subire la tortura (Siria, Filippine, Messico, Brasile), essere assoggettati a processi sommari, venire eliminati senza possibilità di appello o sparire forzatamente. La fine drammatica di Giulio Regeni, un giovane ricercatore italiano, vittima di violenze inaudite, ritrovato ucciso in strada nel febbraio del 2016 in Egitto, ne è un disperato esempio. Stessa sorte sarebbe probabilmente toccata a un altro studente, Patrick Zaki, liberato solo dopo estenuanti trattative diplomatiche. Il conflitto in corso tra Russia e Ucraina ha provocato sfollamenti di massa e crimini di guerra (uccisione di civili, distruzione di ospedali, scuole, abitazioni); quello tra Israele e la Palestina si preannuncia come tra i più disumani di sempre; sono ancora tanti gli Stati dove le libertà di opinione o di espressione sono sistematicamente impedite con la forza, dove gli uomini e le donne che dimostrano il loro desiderio per la libertà, vengono annientati oppure costretti a fuggire come profughi negli Stati limitrofi. Intere popolazioni, per le persecuzioni in patria o per la povertà, cercano rifugio presso i Paesi “liberi”: è il caso dei tanti barconi di “migranti” provenienti dall’Africa che tentano l’approdo presso le coste del Sud Italia, per un aiuto che non tutti gli Stati europei sono disposti a fornire. Ancora oggi, come nella Germania nazista, gruppi di “diversi” (tossicodipendenti, prostitute...) vengono internati in campi di riabilitazione drammaticamente somiglianti a quelli che accolsero gli Ebrei (Corea del Nord). Altre realtà del mondo, come la Cina, eludendo le condanne internazionali, negano le violazioni dei diritti perpetrate nei loro territori. Non sono rari i casi di giornalisti imprigionati perché non rivelino al mondo le condizioni di schiavitù presenti in tante parti del mondo (Afghanistan, Myanmar, Etiopia, Iran, ecc.). I gruppi di popolazione più deboli fanno maggiormente le spese della violenza: le discriminazioni di genere, di razza, quelle basate sull’orientamento sessuale, la disabilità, la professione religiosa, restano spesso punite solo nelle intenzioni.

Sulla base di queste considerazioni sarebbe lecito pensare che l’essere umano, capace di tanta violenza, sia per natura cattivo ed esprima in modo crudele la sua naturale inclinazione all’odio. Avrebbero quindi ragione Plauto e Hobbes a definire l’homo homini lupus: ogni uomo sarebbe per sua stessa costituzione come un lupo per gli altri uomini. L’uomo biologico, egoista e crudele, sarebbe limitato solo grazie all’azione dell’uomo sociale che ne arginerebbe (a stento) gli istinti primordiali alla sopraffazione (Jean Hamburger).

Tuttavia se questa affermazione corrispondesse a verità, non si spiegherebbe la presenza nel mondo di slanci umani del tutto disinteressati, del manifestarsi della generosità gratuita di tanti individui che affrontano le difficoltà e il pericolo della morte pur di aiutare i propri simili: associazioni come Medici senza frontiere e Amnesty International non potrebbero esistere. La presenza dell’ONU, dell’Unesco testimoniano invece una volontà tenace alla solidarietà. Se l’uomo fosse davvero naturalmente cattivo, fin dagli albori dell’umanità sarebbe rimasto solo e chiuso nell’egoismo e nella esclusiva difesa della sua sopravvivenza. Invece sappiamo che l’uomo è un animale sociale (Aristotele). Fin dalle origini ha cercato prima di tutto la comunicazione con gli altri, inventando il linguaggio articolato, poi ha costituito la famiglia e poi il gruppo sociale, il villaggio, la città. L’affermarsi della razza umana sulla Terra ha ripercorso quello che è l’approccio alla vita del bambino la cui prima espressione, quando viene in contatto con l’altro essere umano, è il sorriso, la curiosità, la collaborazione. Allora si può affermare che l’uomo nasce come il buon selvaggio di Rousseau, naturalmente empatico verso i suoi simili, attento alla conservazione della sua vita e della specie ma nello stesso tempo proiettato verso la costituzione di un gruppo solidale, di una società. Non si spiegherebbero altrimenti gli atti di eroismo disinteressato che, pure, troviamo nella cronaca: solo ad esempio, qualche mese fa, un giovane ha salvato una bambina precipitata da un balcone e al giornalista che gli chiedeva perché fosse intervenuto prontamente, anche a rischio della sua vita, ha risposto: “mi è venuto spontaneo, ho agito senza pensarci”. Questo slancio è da sempre nell’umanità: se l’uomo biologico fosse solo violenza non potrebbe produrre alcun atto generoso, così come il buio non può produrre la luce o il nulla l’esistenza.

Però le guerre esistono, come le persecuzioni, gli eccidi… Quindi è doveroso chiedersi cosa spinga l’umanità a commettere il male, quale sia il vulnus sotto il quale l’uomo cade e si snatura. “Namque omnes plerumque cadunt in vulnus” scrive Lucrezio nel De rerum natura (“Perché è un fatto di ordine naturale che gli uomini cadano dal lato della ferita”): il vulnus è la presa di coscienza della morte. Nel momento in cui l’uomo percepisce la sua finitezza, il tempo limitato che ha a disposizione, perde la sua integrità morale. Si fa strada in lui l’egoismo, il volere a tutti i costi sempre di più perché la vita sfugge e allora diventa lupo per gli altri. Questo accade nella breve esistenza del singolo ma anche in quella dei popoli: l’umanità, schiacciata dalla consapevolezza della morte, reagisce con una corsa all’appropriazione, alla conquista, all’annichilimento del rivale e compie atti spaventosi.

Un’umanità così sarebbe condannata all’autodistruzione, a una sorta di cannibalismo planetario, perché la morte è un problema cui non si può ovviare. Tuttavia la consapevolezza della fine può essere, se non sconfitta, almeno depauperata del suo potere distruttivo e snaturante. Il sentimento religioso propone da sempre di alzare lo sguardo e di intravedere una possibilità di riscatto in una vita oltre quella terrena, un risarcimento nell’aldilà, vincolato ad una buona condotta in Terra. Questa visione tuttavia non può essere valida per ogni uomo, perché non è per tutti abbracciare una fede religiosa. Per tutti invece è superare il pensiero della finitezza con la consapevolezza di condividere con gli altri lo stesso destino. Ogni uomo sulla Terra è destinato a finire, questa caratteristica ci lega, ci accomuna, ci rende uguali nella sofferenza. Ogni uomo è fratello dell’altro e si salva solo se riconosce la compassione, cioè la condivisione della medesima situazione di sofferenza. Ogni uomo può riconquistare la sua bontà originaria solo se farà come la ginestra di Leopardi, consapevole di trovarsi sulle falde del vulcano: prima o poi la lava la raggiungerà e lei chinerà lo stelo sotto la sua potenza ma intanto emana il suo profumo come un regalo. L’umanità potrà salvarsi dalla distruzione solo scegliendo di amare, nonostante tutto, solo riconoscendo in ciascuno la presenza di una ricchezza data all’origine, magari nascosta dalle mura di difesa, ma di valore inestimabile.


Francesca Cristofori, 4A


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